Roberto pinton

Roberto Pinton

Il ruolo dei media: informazione o disinformazione?
Informazione o disinformazione?
La seconda che hai detto.
L’influenza aviaria esiste da sempre (nel passato si chiamava “peste aviaria” e andava e
veniva): negli allevamenti italiani si presenta con regolarità cronometrica ogni anno dalla fine
degli anni 90.
Solo nell’inverno del 1999 sono morti (perché colpiti dalla malattia o perché soppressi per non
diffondere ulteriormente il contagio) 14 milioni di capi (polli da carne, galline ovaiole,
tacchini), qualcosa come 35 mila tonnellate di carne.
Si è sempre trattato di un accidente che toccava solo gli allevatori, massacrando solo le loro
economie e prospettive, e a fatica ha strappato una decina di secondi nell’ultima edizione Tg
regionali lombardo e veneto e due colonne nelle pagine interne dei quotidiani padani, come
solidarietà territoriale.
Secondo i dati ufficiali dell'Organizzazione mondiale della sanità dall’inizio dell’allerta per
questa variante (e cioè dal 2002) al 14 marzo 2006 in tutto il mondo 180 persone sono state
colpite dalla variante umana, facendo registrare 101 decessi su una popolazione umana di 4
miliardi
di abitanti, pari a una mortalità dello 0,000002525%.
Secondo i dati della stessa Organizzazione Mondiale della Sanità sulla qualità terribile
dell’aria, per il solo inquinamento da polveri sottili nell'ambiente urbano muoiono ogni anno
circa 100.000 europei (e si perdono 725.000 anni di vita), una percentuale pari allo 0,02%.
Sta a dire che la certezza di morire semplicemente respirando è circa 8.000 volte
superiore
alla possibilità di contrarre l’influenza aviaria (che, tra l’altro, finora ha interessato
solo popolazioni che vivono in promiscuità con il pollame e in condizioni igienico sanitarie che
anche la più disastrata delle nostre Asl riterrebbe inaccettabile.
L’ignoranza della nostra stampa sulle problematiche agro-alimentari è ragguardevole.
La considerazione per il mondo rurale oscilla dall’apoteosi superficiale del lardo di Colonnata
alla condiscendenza benevola per mondo di cui nulla si sa, salvo che è composto di burini
che, smontati dal trattore, non sono usi prendersi un aperitivo e uno snack all’happy hours
prima di mettersi in tangenziale verso casa.
La visione dell’agricoltura oscilla tra paccottiglia alla Fattoria (che in palinsesto vale come
“reality show”) e la mistica da grande disneyland agrituristico, un barnum inesistente di fattorie
didattiche, multifunzionalità, specialità casalinghe di Nonna Papera e letame.
Grazie al cielo ci sono le agenzie, basta copiare.
E le agenzie, ricevuto un comunicato su una bella carta intestata, pubblicano.
La campagna stampa sull’aviaria, sui vaccini e sugli antivirali, che fino ad allora era passata
tra le “brevi dall’estero” è partita nel settembre scorso, poco casualmente dopo che la
conferenza internazionale di Malta promossa e finanziata da sette multinazionali del farmaco
(tra cui Hoffman-La Roche, Solvay Pharmaceuticals, Chiron Vaccines) si è posta l’obbiettivo
di vaccinare contro l’influenza un terzo della popolazione europea (cioè 152 milioni di persone,
152 milioni di dosi, 152 milioni di siringhe e così via).
L’influenza aviaria, nota ed endemica da decenni e sotto esame -per questa variante- dal
2002, solo dal settembre 2005 ha guadagnato le prime pagine dei giornali e le aperture dei Tg.
Dato che “influenza aviaria” non suona troppo preoccupante, e dopo aver scartato
“raffreddore dell’oca lombardella”, “scorbuto della canapiglia”, “polmonite dei cigni” e “diarrea
della pavoncella”
(che richiedono, tra l’altro, alcuni rudimenti di zoologia), si è scelto “influenza
dei polli”:
vivaddio, tutti conoscono i polli, molti li mangiano pure, capiranno bene di cosa si sta
parlando!
A seguire, virologi, pediatri, ortopedici e neurologi hanno raccomandato la vaccinazione
preventiva contro la comune influenza, l’ex ministro della salute ha prenotato 35 milioni di
dosi
di vaccino (da consegnarsi entro 3-4 mesi dalla dichiarazione di pandemia da parte
dell’Oms), informando l’opinione pubblica: «Saremo in grado di coprire l'80% della
popolazione italiana»
.
Vaccini che non difendono dall’influenza aviaria (il vaccino per la variante umana non è
disponibile) e per i quali, una volta che saranno scaduti ancora nelle loro scatole, ci si dovrà
preoccupare di un idoneo smaltimento.
Dopo i Qui della stampa e il Quo del Ministero, non è mancato il Qua dell’Autorità europea per
la sicurezza alimentare: prima il direttore scientifico, l'olandese Herman Kouter ha dichiarato
alla stampa «Non esiste alcuna prova che il virus dell'influenza aviaria si possa contrarre
attraverso il cibo, ma non possiamo neppure escluderlo. Se non si mangiano uova crude e si
cuoce sempre il pollame, non dovrebbero esserci problemi»,
sobillando le mamme (anche
quelle giudiziose, che non erano tra le decine di migliaia che si erano precipitate in Svizzera
ad acquistare confezioni di Tamiflu, non si sa mai…) a bollire mezz’ora buona l’ovetto sodo
per il pupo.
Il mattino successivo, scoperto il passo falso, l’Efsa ha smentito il suo direttore scientifico
dichirando «Non c'è nessun pericolo dal consumo di uova crude e carni di pollo nell'Unione
europea»
, dato che «sul mercato europeo sono disponibili solo uova e carni sicure per il
consumo umano e che l'Ue e i suoi stati membri applicano dei controlli veterinari rigorosi ed
estesi per garantire che solo carni di animali sani possano arrivare sul piatto dei cittadini
europei».
Per dimostrare che i controlli si facevano, Corpo forestale dello Stato, Carabinieri del nucleo
politiche agricole e dei Nas hanno emesso un comunicato vantandosi di ogni irregolarità
scoperta.
Così la mamma che prima lessava l’uovo mezz’ora è venuta a sapere che i controlli veterinari
erano effettivamente rigorosi, ma che ogni giorno scoprivano un allevamento non registrato e
fuori di ogni norma igienico sanitaria che, finora, aveva serenamente condotto la sua attività
senza che nessuno dicesse “bah”.
60 oche a Gela (e pazienza), poi 22.800 polli, diecimila uova e un centro di imballaggio
sequestrati a Catanzaro, farmaci proibiti nelle uova e sequestro con sigilli a 300.000 uova in
un’azienda di Acerra, 450 galline sequestrate nel tarantino, 10.000 uova e 1.000 galline a
Trapani, 27.000 galline ovaiole e 4.000 uova messe sotto chiave nel crotonese, 1.100
confezioni di specialità veterinarie fatte entrare illegalmente in territorio italiano, 6.700
chilogrammi di principi farmacologicamente attivi, 25 ordini di custodia cautelare in carcere, 29
ordinanze agli arresti domiciliari, 148 perquisizioni, per un totale di 98 indagati a Brescia per
antibiotici e ormoni al pollame.
La domanda è: dopo aver messo in fila, ognuno per la sua parte, ogni azione utile per indurre
almeno psicosi, si può pensare che basti mangiare una coscia di pollo alla fine di un
telegiornale, farsi fotografare mentre si mangia un galletto a tutta ganassa e regalare pollastri
ai banchetti elettorali per far tornare fiducia nei consumatori?
Dovendo mandare in onda un servizio sulla carie, è probabile che un giornalista
interpellerebbe un dentista.
Dovendo trattare di uccelli, ci si attenderebbe che fosse interpellato qualche ornitologo.
Non accade, ed è un peccato.
Si correrebbe il rischio di apprendere che di tutte le 9.917 specie di uccelli esistenti, solo 1.213
sono, in via potenziale, a rischio aviaria, e che nessun controllo sui migratori ha finora
individuato tracce di contagio.
Oppure di sentirsi dire che è necessario riflettere sugli allevamenti intensivi, sul trasporto di
animali e sullo smaltimento delle deiezioni: un articolo pubblicato sulla rivista francese di studi
militari Armee sostiene che il virus dell'influenza aviaria rappresenta un’arma biologica ideale:
può essere sparso ovunque per mezzo della polvere degli escrementi essiccati, un grammo
dei quali sarebbe sufficiente a contaminare un milione di galline.
Nonostante, parlando di polli, i telegiornali riprendano allevamenti rurali con qualche decina di
gallinelle ruspanti, è negli allevamenti in capannone che, anche se “poco televisivi”,
bisognerebbe mettere il naso.
Scrive il New Scientis: «L'elevata densità di polli, tacchini e via dicendo e la costante
esposizione a feci, saliva e altre secrezioni forniscono le condizioni ideali per la riproduzione,
la mutazione, la ricombinazione e la selezione dei virus che così evolvono verso le forme più
letali».
Gli allevamenti a rischio non sono quelli rurali e biologici: sempre nell’inverno 1999 in
Lombardia il virus colpito il 43% degli allevamenti industriali di galline ovaiole contro lo
0,023 di allevamenti rurali (4 su 17.000).
In sostanza, gli allevamenti che si ama definire moderni sono 1.870 volte più a rischio di un
allevamento all’aperto: la debolezza genetica degli animali allevati dall’industria (o crescono
velocemente o sono rustici e resistenti, non si può aver tutto dalla vita) e un metodo
d'allevamento del tutto innaturale (gabbie, capannoni con troppa densità di animali e piano di
calpestio ricoperto da deiezioni) rendono gli allevamenti intensivi vulnerabili a qualsiasi virus,
quello dell’aviaria compreso.
Le produzioni rurali, necessariamente con razze a lento accrescimento ruspanti liberamente
al pascolo, sono ancora quelle che offrono la maggior qualità e un’assoluta sicurezza per i
consumatori.
L’aviaria poteva costituire l’occasione per riflettere sulle modalità di allevamento dal punto di
vista ecologico, etologico, economico, sanitario e organolettico.
Non lo si è fatto, per insipienza o per non …ferire la sensibilità dei colossi dell’allevamento.
L’insipienza del mondo dei media è tale che, nei giorni scorsi, in una trasmissione radiofonica
che si occupa -male- di alimentare (addirittura una co-produzione finanziata da Qualità Italia,
emanazione del Ministero delle politiche agricole e forestali), per qualificare chi svolge in modo
discutibile il proprio lavoro, lo si è definito “braccia rubate all’agricoltura”.
Braccia rubate alle redazioni, diremo noi, d’ora in poi.

Source: http://www.aspviareggio.it/convegno2006/atti/RELAZIONEPINTON.pdf

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