La leucemia linfatica cronica a cellule B (B-CLL) è la forma di leucemia più frequente nella popolazione adulta. Viene diagnosticata generalmente in età media o avanzata (età mediana alla diagnosi: 65 anni). Solo il 15% dei pazienti ha un'età inferiore a 50 anni. Negli ultimi anni tuttavia la percentuale di pazienti giovani è in aumento, probabilmente perché un numero maggiore di casi viene diagnosticato a seguito di esami occasionali, in assenza di qualunque sintomo. Questi soggetti hanno spesso come unica alterazione all'esame emocromocitometrico un aumento del numero di globuli bianchi (leucocitosi) con aumento percentuale dei linfociti (linfocitosi). In questi pazienti la diagnosi di certezza di leucemia linfatica cronica può essere fatta agevolmente dallo specialista ematologo mediante la tipizzazione immunologica dei linfociti del sangue periferico. La leucemia linfatica cronica è una malattia clonale caratterizzata dalla proliferazione e dal progressivo accumulo di linfociti B nel sangue, nel midollo, nei linfonodi, nella milza. Il risultato è l'aumento del numero dei globuli bianchi (leucocitosi), l'aumento delle dimensioni delle ghiandole linfatiche (linfoadenomegalia), l'aumento delle dimensioni della milza (splenomegalia). Con il progredire della malattia possono comparire altri sintomi legati alla insufficienza midollare quali: anemia (riduzione del numero di globuli rossi o eritrociti), piastrinopenia (riduzione del numero delle piastrine), neutropenia (riduzione del numero dei granulociti neutrofili). Possono inoltre manifestarsi disordini autoimmuni quali anemia emolitica e piastrinopenia autoimmune. Dal punto di vista clinico e della sopravvivenza la Leucemia Linfatica Cronica si comporta in modo eterogeneo. Vi sono infatti pazienti asintomatici in cui le alterazioni ematologiche rimangono stabili per anni senza alcuna terapia ed hanno sopravvivenza non diversa da quella attesa per l'età, e pazienti che hanno invece una malattia progressiva con sopravvivenze inferiori a 3 anni in assenza di trattamento. Come vedremo più avanti, studi recenti hanno dimostrato che questa variabilità clinica dipende da differenze biologiche della malattia. La definizione alla diagnosi delle caratteristiche biologiche della malattia è quindi oggi un momento importante ai fini delle successive decisioni terapeutiche. I criteri diagnostici. I criteri diagnostici della leucemia linfatica cronica attualmente in uso sono quelli formulati dal National Cancer Institute Working Group (NCI-WG). La diagnosi di leucemia linfatica cronica richiede la presenza di:
• Linfociti nel sangue periferico pari o superiori a 5.000/µL. • Alla tipizzazione immunofenotipica i linfociti patologici sono positivi per gli antigeni
CD5, CD19, CD20, CD23, debolmente positivi per CD22, generalmente negativi per FMC7 e CD79b; esprimono immunoglobuline di superficie (SmIg) a bassa densità con restrizione monoclonale, κ o λ, della catena leggera.
• All'esame del midollo osseo l'infiltrato linfatico deve essere pari o superiore al 30%.
I fattori prognostici. La variabilità del decorso clinico rende necessaria lo studio alla diagnosi dei parametri clinici e biologici di significato prognostico. Ciò serve per adeguare il trattamento alla severità della malattia. Il primo parametro prognostico è lo stadio clinico. Vi sono due differenti sistemi di stadiazione: il sistema di Rai (1975) ed il sistema di Binet (1977) (Tabella 1). Ogni categoria prognostica così definita si associa ad una diversa sopravvivenza globale. Tabella 1. Stadiazione della Leucemia Linfatica Cronica
Gli stadi B e C secondo Binet, III e IV secondo Rai, comprendono il 20-30% dei casi e comportano una riduzione dell'aspettativa di vita. Negli stadi iniziali (A di Binet; 0-I-II di Rai) la sopravvivenza è nettamente migliore, ma si osserva una notevole eterogeneità di decorso. Infatti, una quota di pazienti ha una aspettativa di vita non compromessa dalla malattia, mentre una quota pari al 40% progredisce entro 2 anni ed ha una sopravvivenza globale significativamente ridotta rispetto a quanto atteso per l’età. Vi sono però altri parametri che consentano di predire più accuratamente la prognosi individuale di un paziente in stadio iniziale. I più significativi sono:
• tempo di raddoppio dei linfociti inferiore a 6 mesi o aumento della linfocitosi
• una morfologia dei linfociti "variante" • valori elevati di beta2-microglobulina e di LDH (indici di massa di malattia e di rapida
• un assetto immunofenotipico non tipico
Più recentemente sono stati individuati nuovi parametri biologici di significato prognostico, indipendenti dai parametri clinici convenzionali sopra citati:
• stato mutazionale dei geni IgVH (regione variabile delle catene pesanti delle
immunoglobuline). In base allo stato mutazionale si distinguono oggi due sottotipi di Leucemia Linfatica Cronica-B: una frazione di casi (50% circa) con IgVH in stato non mutato, cioè senza mutazioni somatiche, ed una frazione con mutazioni somatiche (stato mutato). La situazione non mutata si associa ad una malattia più estesa (stadio più avanzato) e comporta una prognosi più sfavorevole. L'impatto prognostico negativo dello stato non mutato è evidente anche nei pazienti in stadio clinico iniziale. Inoltre, lo stato non mutato si associa più frequentemente ad alterazioni cromosomiche sfavorevoli.
• L'espressione della proteina ZAP70 da parte dei linfociti. I linfociti B normali non
esprimono questa proteina. All’analisi in citofluorimetria a flusso circa il 40% dei pazienti con leucemia linfatica cronica esprime invece ZAP70. L’espressione correla con lo stato IgVH non mutato e dal punto di vista prognostico ha un significato sfavorevole.
• L'espressione dell'antigene CD38 da parte dei linfociti. In presenza di una
percentuale di linfociti CD38-positivi superiore al 30% l'andamento clinico è sfavorevole.
• La presenza di anomalie citogenetiche all’analisi citogenetica e alla FISH.
La trisomia 12 (16% dei casi), la delezione 17p13 (17%) e la delezione 11q23 (18%) hanno significato prognostico sfavorevole. La delezione 13q14 (55%) è invece favorevole se isolata (sopravvivenza simile a quella dei pazienti con cariotipo normale). Le alterazioni sfavorevoli si riscontrano più spesso in pazienti in stadio avanzato, ma anche in una certa quota di pazienti in stadio A (15% circa). Al momento attuale la delezione 17p e la delezione 11q appaiono i più potenti fattori prognostici, in quanto influenzano in modo statisticamente significativo sia l’ottenimento della risposta alla terapia che la durata della risposta e la sopravvivenza globale
Quali esami eseguire nella Leucemia Linfatica Cronica Alla luce dei criteri diagnostici e prognostici prima indicati, il paziente con sospetta leucemia linfatica cronica dovrebbe essere sottoposto ai seguenti accertamenti:
• anamnesi ed esame obiettivo • esame emocromocitometrico con osservazione al microscopio dello striscio di
sangue periferico. Il reperto microscopico è tipico: linfocitosi costituita da piccoli linfociti di aspetto maturo, con presenza di "ombre nucleari" o "ombre di Gumprecht" (elementi in disfacimento).
• esami ematochimici di routine comprendenti anche. LDH, beta2-microglobulina,
dosaggio delle immunoglobuline (Ig), test di Coombs.
• tipizzazione immunologica dei linfociti del sangue periferico (CD19, CD20, CD22,
CD23, CD5, FMC7, CD79b, SmIg, catene leggere k o , espressione del CD38 e di ZAP70).
• L’aspirato midollare può essere necessario in presenza di linfocitosi moderata per
ottenere materiale adeguato alle analisi biologiche.
• FISH-panel per leucemia linfatica cronica per la ricerca di trisomia 12, delezione 6q,
delezione 13q, delezione 11q, delezione 17p
• riarrangiamento dei geni per le catene pesanti delle Ig (per definire lo stato
• se sono presenti linfoadenomegalie superficiali può essere utile la biopsia con
esame istologico (nei casi tipici l'istologia è quella di un linfoma non-Hodgkin diffuso linfocitico). In particolari situazioni la biopsia linfonodale può documentare la trasformazione istologica in una malattia più aggressiva (Sindrome di Richter).
• Rx standard del torace, ecografia dell'addome, TAC addome: sono opzionali e
Quali pazienti devono essere trattati? Dal momento che la malattia è eterogenea sia come presentazione clinica che come evoluzione, il primo quesito terapeutico a cui lo specialista ematologo deve rispondere dopo aver eseguito gli esami di stadiazione iniziale è: se il paziente richiede un trattamento già dalla diagnosi, oppure deve essere solamente tenuto in osservazione (riservando il trattamento al momento della progressione).
Attualmente, l'indicazione al trattamento è rappresentata dalla progressione di malattia, definita dalla transizione verso uno stadio più avanzato, oppure dalla comparsa di sintomi sistemici o di insufficienza midollare, dal raddoppio della linfocitosi in meno di 6 mesi (o del 50% in 2 mesi), dalla comparsa di adenomegalie o splenomegalia massive,dalla comparsa di anemia o piastrinopenia autoimmune non responsive agli steroidi. Tuttavia, oggi nella decisione terapeutica assumono sempre maggiore importanza la presenza o assenza di alcune caratteristiche sfavorevoli di tipo biologico come lo stato non mutato dei geni delle IgVH, e la presenza di determinate alterazioni citogenetiche (del17p13, del11q23), l'espressione del CD38 e di ZAP70. Ciò vale soprattutto per i soggetti più giovani, nei quali l'aspettativa di vita viene ad essere significativamente ridotta dalla malattia. L’integrazione dei parametri biologici di prognosi è sempre osservata all’interno degli studi clinici controllati in corso. La terapia della Leucemia Linfatica Cronica L'approccio terapeutico alla leucemia linfatica cronica è rimasto a lungo immodificato e sostanzialmente ad intento contenitivo. Negli ultimi anni, invece, grazie alle acquisizioni derivate dallo studio immunofenotipico e molecolare, alla disponibilità di nuovi farmaci ed alla possibilità di monitorare la malattia non solo a livello morfologico ma anche immunofenotipico e molecolare, l’atteggiamento terapeutico è cambiato. Le cure odierne tendono infatti ad un controllo molto più profondo della malattia ed in alcuni casi alla eradicazione del clone leucemico. Infatti sappiamo oggi che la qualità della risposta è importante per la sopravvivenza libera da malattia e globale. La risposta ematologica è definita secondo i criteri proposti dal NCI-WG (Tabella 2) e recentemente rivisti. Tabella 2 - Criteri di risposta Remissione completa (RC):
• assenza di adenopatie, splenomegalia ed epatomegalia (visita, ecografia, TAC) • assenza di sintomi sistemici • linfociti circolanti normali • neutrofili superiori o uguali a 1500/µL • piastrine superiori a 100.000/ µL • Hb uguale o superiore a 11g/dL • alla biopsia osteomidollare normale cellularità e infiltrato linfatico inferiore al 30%
(non devono essere presenti noduli linfatici)
Risposta Parziale (RP): • riduzione delle adenopatie pari o superiore al 50% • riduzione della splenomegalia o dell'epatomegalia pari superiore al 50% • riduzione della linfocitosi pari o superiore al 50% • alla biopsia osteomidollare infiltrato linfoide >= 30% o presenza di noduli linfatici • più uno o più dei seguenti:
- neutrofili pari o superiori a 1500/µL, o miglioramento del 50% rispetto ai valori di base - piastrine superiori a 100.000/µL o miglioramento del 50% rispetto ai valori di base - Hb superiore a 11 g/dL o miglioramento del 50% rispetto ai valori di base - assenza di sintomi sistemici
Di quali farmaci disponiamo? Ottenere una risposta ematologica completa è prognosticamente favorevole rispetto ad una risposta parziale. Inoltre, quanto più la risposta è completa (documentata anche a
livello immunofenotipico e molecolare), tanto migliore è la sopravvivenza. Ciò ha indotto a ricercare l'eradicazione della malattia attraverso programmi terapeutici intensivi, articolati in più fasi, che impiegano dopo la chemioterapia il cosiddetto "purging" in vivo con anticorpi monoclonali ed il trapianto di cellule staminali allo scopo di giungere alla negatività molecolare ed alla "guarigione" della malattia. Chemioterapia
• Il Chlorambucil (Leukeran, conf. 2 mg) è un agente alchilante attivo nella leucemia
linfatica cronica. La percentuale di risposta ematologica completa è bassa (<5%). Tuttavia, il Leukeran rimane il farmaco di scelta nei pazienti anziani o con patologie associate importanti.
• La Fludarabina, un analogo delle purine, (disponibile per uso endovenoso e orale),
ha sostanzialmente modificato il trattamento della leucemia linfatica cronica. La Fludarabina, impiegata come agente singolo all'esordio, ottiene il 70-80% di risposte con il 25-35% di risposte complete. Non provoca nausea né caduta dei capelli, ma è immunosoppressiva e mielosoppressiva. La Fludarabina è disponibile anche nella formulazione orale; tale formulazione in monoterapia consente un più agevole trattamento dei pazienti anziani.
• La combinazione Fludarabina-Ciclofosfamide. .Dal momento che gli analoghi
purinici agiscono inibendo la riparazione del DNA, sono state studiate associazioni con farmaci citotossici come gli alchilanti che agiscono primariamente attraverso la induzione di cross-links del DNA. Particolarmente efficace è l'associazione Fludarabina-Ciclofosfamide (F-C). Nei pazienti con Leucemia Linfatica Cronica ricaduti dopo alchilanti o dopo Fludarabina l'associazione F-C ha dato percentuali di risposta globale sino all'80%. Nei pazienti all'esordio, la combinazione Fludarabina-Ciclofosfamide dà risposte ematologiche complete nel 35-50% dei casi e risposta completa + parziale nell’80-90%. In recenti studi randomizzati in cui si confrontano Fluadarbina da sola e l’associazione Fludarabina +Ciclofosfamide, la combinazione consente una sopravvivenza libera da malattia nettamente prolungata rispetto alla monoterapia. Inoltre, si documentano alte percentuali di risposta completa immunofenotipica (>= 50% dei pazienti in risposta ematologica completa).
Attualmente, l’associazione Fludarabina-Ciclofosfamide rappresenta il più efficace trattamento della leucemia linfatica cronica all'esordio ed è ben tollerata. E’ necessario che vengano applicate adeguate norme di profilassi antinfettiva in quanto la combinazione è mielosoppressiva
opportunistiche. Immunoterapia con anticorpi monoclonali Una importante modalità di trattamento sperimentata negli ultimi anni è costituita dagli anticorpi monoclonali anti-CD52 (Campath-1H) ed anti-CD20 (Rituximab), diretti contro antigeni espressi sulla membrana dei linfociti della leucemia linfatica cronica. Gli anticorpi monoclonali agiscono inducendo, dopo interazione specifica con l'antigene, lisi cellulare complemento-mediata, citotossicità anticorpo-dipendente ed apoptosi. Hanno quindi un meccanismo d'azione selettivo, differente da quello dei chemioterapici.
• Campath-1H (Alemtuzumab). impiegato come terapia di salvataggio in pazienti
resistenti o ricaduti dopo alchilanti o Fludarabina (indicazione approvata) ottiene il 33% di risposte. Alle prime somministrazioni sono possibili reazioni indesiderate, per cui è necessaria adeguata premedicazione.
Campath-1H comporta un aumentato rischio di infezioni opportunistiche perché induce oltre alla deplezione dei linfociti B anche una marcata e prolungata deplezione dei linfociti T (i quali esprimono l'antigene CD52). Richiede pertanto una adeguata profilassi antibatterica anti-Pneumocystis Carinii ed una sorveglianza antivirale. In alcuni pazienti si può infatti osservare la riattivazione del Cytomegalovirus (CMV). Il Campath-1H, oltre che come terapia dei casi resistenti agli alchilanti o alla Fludarabina, è oggi impiegato come consolidamento dopo terapia con Fludarabina
o Fludarabina-Ciclofosfamide per migliorare la qualità della risposta e trattare la malattia residua. Attualmente viene impiegato anche nella terapia di prima linea in protocolli sperimentali per pazienti ad alto rischio, in particolare portatori di delezione del braccio corto del cromosoma 17 (del17p). In questi pazienti è documentata resistenza ai chemioterapici e a Rituximab. In questi casi è necessario quindi impiegare farmaci differenti che utilizzino meccanismi d’azione diversi. L’alemtuzumab risponde a questa esigenza e vi è consenso al suo impiego in prima linea nei pazienti con del17p da solo o in associazione a Fludarabina o fludarabina+ciclofosfamide. Può essere somministrato per via endovenosa o sottocutanea; attualmente è preferita la via sottocutanea perché si associa a minor incidenza di reazioni collaterali sistemiche indesiderate.
• Rituximab. L'antigene CD20, contro cui agisce il Rituximab, è espresso sui linfociti
B normali e patologici, ma non sui precursori linfoidi né sulle cellule staminali emopoietiche.
I primi studi con il Rituximab nella leucemia linfatica cronica secondo le stesse modalità adottate nei linfomi, hanno mostrato scarsa efficacia, legata sia alla debole espressione dell'antigene CD20 rispetto alle cellule di linfoma, che ai minori livelli dell'anticorpo monoclonale nel paziente con leucemia linfatica cronica. Per superare i meccanismi farmacologici di resistenza, il Rituximab è stato quindi impiegato a dosi più elevate e secondo schemi differenti. Studi recenti confermano che un approccio più intensivo è associato a migliori percentuali di risposta (40-50% in pazienti pretrattati). La prima somministrazione di Rituximab può comportare effetti collaterali legati alla distruzione dei linfociti circolanti, all'attivazione di citochine ed all'attivazione della cascata del complemento. E' necessaria quindi una premedicazione con paracetamolo ed antistamici (e/o cortisonici), eventualmente frazionando la prima dose in due giorni.Con entrambi gli anticorpi monoclonali le risposte sono più frequentemente parziali e migliori sul sangue periferico e sul midollo che sulle adenopatie.
• Immuno-chemioterapia. l' osservazione sperimentale di sinergismo tra anticorpo
anti-CD20 e Fludarabina hanno portato al disegno delle associazioni: Rituximab- Fludarabina o Rituximab-Fludarabina-Ciclofosfamide (R-FC).
L'approccio immuno-chemioterapico Rituximab-Fludarabina-Ciclofosfamide ha dato risultati molto incoraggianti: in pazienti non pretrattati, la percentuale di risposta globale è del 95% con remissione ematologica completa nel 60%-70% e molecolare nel 50% dei responsivi. La sopravvivenza libera da progressione è migliore rispetto alla Fludarabina-Ciclofosfamide senza Rituximab. Lo stesso schema di immuno-chemioterapia ha dato risultati soddisfacenti anche in pazienti refrattari o ricaduti dopo altre terapie. Di particolare rilievo, la tossicità dello schema R-FC non è superiore a quella osservata con la Fludarabina da sola o associata a Ciclofosfamide. In considerazione dei risultati promettenti sono in corso studi randomizzati per confermare definitivamente l’efficacia della combinazione R-FC nella leucemia linfatica cronica sia all’esordio che in ricaduta.
Il trapianto di cellule staminali Il trapianto autologo di cellule staminali periferiche dopo condizionamento con chemioterapia ad alte dosi offre la possibilità di un controllo più profondo e prolungato della malattia. Non si dispone attualmente di studi randomizzati prospettici, ma il confronto con casistiche storiche di pazienti trattati con sola chemioterapia consente di affermarlo. La mortalità è inferiore al 2% e la morbilità molto contenuta. Dal momento che l’efficacia è tanto maggiore quanto minore è la malattia presente al momento della procedura, è importante che il paziente giunga a trapianto in buona risposta, completa o per lo meno parziale dopo chemioterapia o immuno-chemioterapia, mentre i risultati sono molto
modesti in presenza di malattia attiva. Inoltre, se il paziente ha raggiunto la risposta ematologia completa, anche il grado di contaminazione dell’espianto è minore. Il trapianto autologo, tuttavia, è gravato da una continua incidenza di ricaduta di malattia per cui si ritiene che non possa essere eradicante ed inoltre non sembra in grado di annullare l’impatto prognostico sfavorevole dei parametri di alto rischio biologico. Sono in corso studi che confrontano i risultati dell’autotrapianto con i risultati di protocolli di terapia basati su immuno-chemioterapia iniziale seguita da consolidamento. Da questi studi emergerà il ruolo dell’autotrapianto nella strategia terapeutica della leucemia linfatica cronica. Il trapianto allogenico da donatore HLA identico, data l'età media avanzata dei pazienti con leucemia linfatica cronica, è praticato sinora in un limitato numero di casi. La mortalità peritrapiantologica è ancora elevata (25-40%), soprattutto per infezioni e Graft-Versus- Host Disease (GVHD). La sopravvivenza libera da malattia dopo trapianto allogenico si attesta intorno al 40% con una incidenza di recidiva intorno al 10-25%. La possibilità, rispetto all'autotrapianto, di ottenere l'eradicazione della leucemia linfatica cronica fa ipotizzare l'esistenza di un effetto graft-versus-leukemia (GVL). Le nuove modalità di trapianto allogenico con condizionamento ad intensità ridotta basato proprio sull'impiego della Fludarabina (trapianto non mieloablativo o mini-trapianto), consentono di proporre il trapianto allogenico non-mieloablativo in una più ampia fascia d'età e di ridurne la tossicità. I risultati sono incoraggianti. Complessivamente, il trapianto allogenico è più efficace del trapianto autologo nella eradicazione della malattia, ma è una procedura tuttora sperimentale da attuare nell’ambito di studi clinici. L’indicazione al trapianto allogenico dipende da numerosi fattori, quali innanzi tutto l’età del paziente e le caratteristiche prognostiche della malattia. Attualmente possono essere considerati candidati al trapianto allogenico i pazienti più giovani, con donatore familiare HLA identico e con caratteristiche prognostiche altamente sfavorevoli come la del17p o precocemente ricaduti dopo trattamento basato su fludarabina. Conclusioni In conclusione, oggi sono disponibili molte modalità di cura il cui impiego integrato consente di ottenere una remissione di alta qualità e di migliorare sostanzialmente la sopravvivenza del paziente con leucemia linfatica cronica. La scelta del tipo di trattamento prende in considerazione diversi parametri quali i fattori prognostici (clinici e biologici), l’età del paziente, la disponibilità di un donatore, ed il tipo di risposta ottenuta con i primi cicli di terapia. Dagli anni '60, quando la terapia era semplicemente di contenimento e consentiva una sopravvivenza mediana di soli 5 anni, si è giunti negli anni 2000 ad ottenere un prolungamento significativo della sopravvivenza ed anche la negativizzazione molecolare in una quota significativa di pazienti. L’orientamento attuale è verso una terapia biologicamente-orientata, in cui la scelta del momento in cui iniziare la terapia e la strategia terapeutica sono basati sulla integrazione delle caratteristiche cliniche (stadio, età, patologie associate) e biologiche della malattia. Gli studi clinici in corso sono volti proprio alla valutazione della efficacia di una strategia terapeutica basata sulle caratteristiche individuali di rischio. Le più frequenti domande dei pazienti con Leucemia Linfatica Cronica B Che tipo di malattia è la Leucemia Linfatica cronica? E' una malattia caratterizzata dalla proliferazione clonale e dal progressivo accumulo di linfociti B nel sangue, nel midollo, nei linfonodi e nella milza. La conseguenza è un aumento del numero dei linfociti nel sangue periferico, un aumento di volume dei linfonodi ed un aumento delle dimensioni della milza.
Quali sono le cause? È ereditaria? Sono tuttora sconosciuti i fattori che causano la leucemia linfatica cronica. La ricerca scientifica fa ipotizzare che intervengano sia fattori ambientali che caratteristiche genetiche dell’individuo. Sono comunque esclusi tra gli agenti causali le radiazioni e gli agenti chimici. La malattia non è ereditaria, ma fattori genetici familiari possono predisporre ad un rischio più elevato di sviluppare la malattia. Nella popolazione generale in età medio-avanzata con la tipizzazione immunofenotipica è possibile riscontrare una popolazione linfoide B clonale (linfocitosi B monoclonale) nell’1% dei casi, senza che siano ottemperati i criteri per la diagnosi di leucemia linfatica cronica; l’evoluzione di tale condizione non è nota. Tra i familiari di pazienti affetti da leucemia linfatica cronica, la linfocitosi B monoclonale è osservata in una percentuale maggiore di casi (10%). Come si può sospettare la Leucemia Linfatica Cronica? Il sospetto diagnostico di leucemia linfatica cronica sorge quando all'esame emocromocitometrico si osserva un aumento del numero dei linfociti. Quali sono gli accertamenti da eseguire? Di fronte ad un aumento del numero dei linfociti nel sangue periferico, l'indagine che permette di porre diagnosi certa di leucemia linfatica cronica è lo studio immunofenotipico dei linfociti del sangue periferico. Una volta posta la diagnosi, il paziente viene sottoposto a: esami ematochimici completi, studio della situazione immunitaria, aspirato midollare (eventualmente con biopsia osteomidollare), Rx del torace, ecografia o TAC dell'addome per valutare la presenza di adenopatie profonde e di epato-splenomegalia. Sulla base di questi esami è possibile definire lo "stadio" della malattia (vedi Tab. 1). Indagini più approfondite (analisi molecolare, esame citogenetico) sul sangue periferico o midollare possono definire in modo più completo la malattia. Qual è il decorso clinico tipico della leucemia linfatica cronica? La leucemia linfatica cronica è una malattia ad andamento cronico, indolente. Tuttavia vi è una notevole eterogeneità dal punto di vista clinico. Vi sono infatti pazienti asintomatici che rimangono stabili per anni senza terapia ed hanno una sopravvivenza non dissimile da quella attesa per l'età, e pazienti con malattia progressiva e sopravvivenza inferiore a 3 anni. Tutti i pazienti con LLC devono ricevere una terapia? Non tutti i pazienti richiedono un trattamento già dalla diagnosi. Attualmente, l'indicazione al trattamento è rappresentata dallo stadio avanzato (C di Binet, o III-IV di Rai, vedi tab 1) o dalla comparsa di segni di progressione di malattia. I pazienti che si presentano con malattia limitata (stadio A o B non progressivi, 60-80% dei casi) possono invece essere tenuti in osservazione senza terapia riservando il trattamento al momento in cui si presentassero chiari segni di progressione. È probabile però che con i nuovi trattamenti disponibili e con le recenti acquisizioni in tema di fattori prognostici, questi criteri dovranno essere in parte riconsiderati. Infatti, in alcune categorie di pazienti con malattia limitata potrebbe essere indicato un intervento terapeutico precoce. In questa decisione sta assumendo sempre maggiore importanza la presenza o assenza di alcune caratteristiche biologiche prognosticamente sfavorevoli. Ciò vale soprattutto per i soggetti giovani nei quali l'aspettativa di vita viene ad essere significativamente ridotta dalla malattia. Quali sono i farmaci più attuali nella terapia della leucemia linfatica cronica? Attualmente la terapia con Fludarabina in combinazione con la Ciclofosfamide, appare il più efficace trattamento della Leucemia Linfatica Cronica all'esordio ed é in genere ben tollerata. Una innovativa modalità di trattamento proposta negli ultimi anni è costituita dagli
anticorpi monoclonali anti-CD52 MabCampath ed anti-CD20 Rituximab, associati alla chemioterapia, contemporaneamente o in sequenza. A differenza dei chemioterapici, essi agiscono in modo "selettivo", per cui possono essere usati in associazione con la Fludarabina per ottenere una risposta quanto più possibile completa.Nel paziente anziano o con patologia associata importante , la chemioterapia di combinazione o la immunochemio-terapia potrebbero essere mal tollerate; si preferisce in alcuni casi quindi quindi la monochemioterapia con Fludarabina o Clorambucile. Il trapianto di cellule staminali non è ancora considerato una opzione terapeutica? Il trapianto di cellule staminali non è ancora una opzione terapeutica "standard" per la leucemia linfatica cronica. Tuttavia sono in via di sperimentazione programmi terapeutici intensivi, articolati in più fasi, i quali dopo la chemioterapia e gli anticorpi monoclonali impiegano il trapianto di cellule staminali. Questi programmi sono riservati per il momento ai pazienti più giovani e con malattia a caratteristiche prognostiche sfavorevoli.
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