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anno II
quattordicesima raccolta(12 luglio 2005)

In questa raccolta:
Siamo tutti “londinesi”?, di Antonio Corona, pag. 1
Nota sulle assunzioni, l’amministrazione generale e la carriera prefettizia, di Aldo
Liberi… di non votare. A proposito del referendum sulla fecondazione assistita, di Roberto
Al servizio di Sua Maestà il Cittadino, di Marco Baldino, pag. 8
Il libro: “La tragedia di Pentidattilo” di Andrea Cantadori, di M. Stefania Caracciolo, pag. 10
Immigrato kaputt, di Maurizio Guaitoli, pag. 11

Siamo tutti “londinesi”?
La televisione ha da poco dato notizia degli attentati terroristici a Londra. Decine di morti, centinaia di feriti, volti e sguardi dei sopravvissuti come di persone svegliatesi di notte in preda a un incubo, con la differenza che questa volta non ci si può svegliare dalla realtà. Strano il destino, non di rado maligno e beffardo. Appena ieri sera, Londra era stata prescelta per ospitare i Giochi olimpici del 2012, gli stessi per il cui svolgimento nell’antichità venivano sospese le eventuali guerre in corso. Questa volta, appena poche ore e si è passati dal tripudio dell’annuncio olimpico alla conta dei resti dei tanti corpi umani. I Paesi riuniti per il G8 a Gleneagles, in Scozia, si stringono immediatamente all’Ospite ferito: gli Stati Uniti d’America, uniti alla Gran Bretagna da legami indissolubili; la Francia, che ne è divisa praticamente su tutto, dall’Iraq alle politiche e priorità comunitarie; la Germania, così assorta nel tentativo di aggiudicarsi un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’O.N.U…. E poi Canada, Italia, Giappone, Russia, Cina, India, e tutti gli altri ancora. Tutti a dichiararsi fermamente decisi a combattere uniti il terrorismo con forza e immutato impegno, tutti probabilmente già pronti a dividersi ancora una volta sul come farlo. “La storia non si fa con i se e con i ma”. Forse, tuttavia, la guerra in Iraq si sarebbe potuta evitare se solo Saddam Hussein avesse avuto di fronte un Consiglio di sicurezza dell’O.N.U. compatto. Al contrario, l’O.N.U. si spaccò in due: da una parte Stati Uniti, Gran Bretagna - l’alleato di sempre - e qualche altro, facevano la voce grossa e minacciavano sfracelli; dall’altra, Francia, Germania, Russia su tutti, sterilizzavano l’effetto deterrente di quell’incedere, facendo intendere che mai avrebbero consentito l’uso della forza. Tutto sommato non importa nemmeno stabilire chi abbia sbagliato: resta il fatto che quell’essere divisi su “come” costringere a miti consigli il dittatore iracheno, lo rese più spavaldo, con le conseguenze che tutti conosciamo. “Dopoguerra” iracheno. Viene da chiedersi in quanti, anche nel nostro caro vecchio continente - efficacemente definito “Eurabia” da Oriana Fallaci, da subito messa all’indice dai soliti noti perché con i suoi scritti fomenterebbe l’odio etnico-religioso(!) – hanno tifato, e continuano a farlo, per i gloriosi “resistenti” iracheni. Quelli, per intenderci, che non esitano a mandare persino gli adolescenti a farsi esplodere tra i loro stessi fratelli arabi, uomini, donne, vecchi, bambini, senza stare lì troppo a sottilizzare. Nonostante diverse risoluzioni O.N.U. legittimino ormai pienamente la presenza militare straniera in quel disgraziato Paese per la sua ricostruzione, la comunità internazionale e le pubbliche opinioni all’interno dei diversi Paesi continuano a rimanere divise. Quante volte si è sentito riecheggiare: “Se la vedano gli Americani e la loro coalizione dei volenterosi a meno che non lascino subito il campo ad altre truppe di Paesi arabi(come se non ci volesse nulla a mettere insieme duecentomila soldati almeno con addestramento, armamenti e logistica adeguati…), oppure non mettano le loro forze militari sotto comando O.N.U.”. Richieste impossibili che però mettono a posto la coscienza di chi le propone, liberando dall’obbligo di assumere responsabilità concrete e consentendo, al contempo, di continuare ad ergersi a censori delle altrui iniziative. Il terrorismo islamista, intanto, ringrazia e prolifera. La guerra all’Iraq è stata definita “guerra preventiva al terrorismo” da chi l’ha promossa, un terribile sbaglio da coloro che invece l’hanno avversata. Questi ultimi hanno proposto in alternativa il ricorso pressoché esclusivo all’intelligence, la creazione di condizioni per la nascita e la crescita dal basso di una democrazia in grado di modificare le società e le relative classi dirigenti, l’eliminazione delle situazioni di povertà e arretratezza da cui il terrorismo trarrebbe linfa: soluzioni indubbiamente più rassicuranti del mandare propri soldati a combattere(o, se si preferisce, a ricostruire) e a morire, con conseguente esposizione a possibili rappresaglie. Queste soluzioni sono anche realistiche, quantomeno nel breve-medio periodo? L’intelligence: può costituire un valido supporto, di certo non “lo” strumento. Proprio quanto accaduto a Londra sta lì a dimostrarlo. L’apparato di sicurezza inglese – c’è da giurare, in stretto e costante raccordo con analoghi organismi di altri Paesi – stava operando al massimo delle sue capacità per individuare possibili cellule terroristiche e prevenirne gli attacchi: eppure non c’è riuscito, come purtroppo sappiamo, al pari di ciò che è avvenuto per gli spagnoli l’11 marzo del 2004 a Madrid e prima ancora per gli americani l’11 settembre a New York e Washington. Inoltre, per avere qualche realistica probabilità di successo, l’intelligence deve poter disporre di un territorio dove muoversi con una certa facilità e avere, specie nelle zone ostili, adeguati infiltrazioni e collegamenti. Se, come i fatti dimostrano, trova già comprensibili difficoltà quando agisce nell’ambito dei propri confini nazionali, è pensabile che possa avere migliori possibilità in territori non amici? Come si fa a inseguire un Bin Laden con qualche speranza di catturarlo, se non si ha accesso ai luoghi dove potrebbe nascondersi? La democrazia che nasce dal basso. Chi ha vinto le ultime elezioni presidenziali in Iran, Paese di cui pure i media occidentali avevano evidenziato le pulsioni riformiste: i progressisti o gli ultra-conservatori? Tienanmen: quanti sanno o si ricordano se era una località, una piazza o una via e dove, o cos’altro ancora, e cos’ha
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) rappresentato? Hitler, Mussolini, Milosevic: se non fossero stati travolti da una sconfitta militare, siamo certi che non starebbero ancora al loro posto? E’ proprio vero che popoli e comunità islamici, con tradizioni culturali e condizioni sociali completamente diversi da quelli dell’Occidente, intendano avviarsi verso un radioso futuro di democrazia e libertà? Eliminazione delle situazioni di povertà e arretratezza. L’Italia versa in una crisi economica di significative dimensioni; è un Paese, viene asserito, dove milioni di famiglie, già dalla fine della “terza settimana”, non possono nemmeno permettersi il latte: è dunque ragionevole credere che l’Italia - per fare un esempio tra i non pochi altri - sia in grado, almeno in questo periodo, di aiutare significativamente altri Paesi meno fortunati? Sono soluzioni, quelle appena rammentate, che sembrano più che altro dirette a esorcizzare le nostre paure, a consentirci di continuare a trastullarci con beata incoscienza con le nostre abitudini e sicurezze quotidiane, a cullarci nella speranza che, se non ci faremo notare, nessuno verrà a scuoterci dal nostro tranquillo torpore. Non pochi sostengono che l’Iraq non è l’Afghanistan, che l’averlo invaso non ha debellato il terrorismo bensì l’ha alimentato, che la guerra preventiva non può comunque essere la soluzione considerato che il terrorismo islamista non è legato a un territorio definito, che la democrazia non si esporta sulla punta delle baionette. Magari sarà pure vero, sebbene non possa dimenticarsi che l’11 settembre non è stato un atto di ritorsione ma un attacco terroristico “a freddo”, per di più, paradossalmente, nel momento in cui l’Amministrazione Bush, da poco insediatasi, veniva imputata di “neo-isolazionismo” dalla comunità internazionale; che la guerra preventiva - ma sarebbe meglio parlare di una sua credibile minaccia - è tra l’altro diretta a eliminare zone franche dove i terroristi possano trovare sicuro rifugio e/o sostegno; che i terroristi islamisti attaccano l’Occidente perché i valori che propugna sono antitetici al loro modello di società. L’11 settembre ha segnato una svolta nella sfida che il terrorismo islamista ha lanciato all’intero Occidente e ai valori che esso rappresenta, una sfida alla quale non ci si può sottrarre. L’11 settembre a New York e a Washington, l’11 marzo a Madrid poi, il 7 luglio a Londra oggi, dimostrano che, da sole, le misure di difesa “passiva” non pagano, poichè gli obiettivi possibili dei terroristi sono innumerevoli, non si possono tutelare tutti adeguatamente e il costo per assicurare credibili accorgimenti di tutela - in termini d’impiego di risorse umane, strumentali e finanziarie - risulta sempre meno sostenibile. Occorre sottrarre l’iniziativa ai terroristi, formare un fronte compatto che metta da parte egoismi e protagonismi nazionalistici, rendite di posizione politiche. La sicurezza, la libertà nostra e dei nostri cari dipendono dal prezzo che siamo disposti a pagare, dalla risolutezza che tutti quanti insieme riusciremo a dimostrare in concreto, con la consapevolezza che il terrorismo non si espianta da un giorno all’altro. Pessima giornata, questo 7 luglio 2005. Iniziata male, non sembra destinata a concludersi meglio, qui da noi, con questi commenti nelle orecchie, inesorabilmente sempre uguali a se stessi, che stanno ormai inondando le varie emittenti e che domani ritroveremo puntuali sui giornali. Intanto, a poche ore dai tragici fatti odierni, dopo le consuete e unanimi dichiarazioni di lotta comune al terrorismo, ci si sta già nuovamente dividendo sulla permanenza o sul ritiro del contingente militare italiano in Iraq. p.s. Queste riflessioni sono state scritte il 7 luglio 2005 e ho preferito lasciarle così, per fissare l’emozione di quei momenti. Tra le considerazioni più significative dei giorni successivi, segnalo quelle svolte da Paolo Mieli ne “Il
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) suicidio dell’Europa”(Corriere della Sera, 8 luglio 2005): “(…) era venuto il momento dell’Iraq e lì parte consistente dell’Europa, Francia e Germania in testa, avevano dissentito dagli Stati Uniti, ciò che noi del Corriere considerammo più che giustificato. Ma – e questo non è affatto giustificabile – da quel momento l’Europa di cui stiamo parlando trasformò un comprensibile dissenso in un sostanziale disimpegno dalla lotta al terrorismo. Da quei primi mesi del 2003, in questa parte del nostro continente nessuno si è davvero impegnato nell’elaborazione di una diversa ma efficace strategia militare per battere il terrorismo. Molte chiacchiere, zero sostanza. Da quel momento il fanatismo armato si è accanito sull’Europa:(…) pur continuando, chi crede, a dissentire dalle politiche statunitensi – dovremmo ‘ritrovare l’Europa’ anche e soprattutto mettendo in campo un progetto politico militare per sconfiggere il terrorismo. Niente nervosismi, per carità, nessun forma di repressione indistinta contro le comunità islamiche (…). Ma nemmeno questi sonni prolungati che si interrompono un mattino quando ci accorgiamo che c'è del sangue sul selciato e per qualche giorno ci abbandoniamo all’invettiva. Altro che referendum sulla Costituzione europea: la disfatta dell’Ue comincia dall’aver accettato di essere il tallone d’Achille dell’Occidente al cospetto del terrorismo. Faccia pure l’Europa qualcosa di diverso dall’America. Ma faccia qualcosa.” Appunto. Nota sulle assunzioni, l’amministrazione generale e la carriera prefettizia
I temi sopra indicati rappresentano, secondo il mio parere, i principali problemi dell’attuale difficile momento attraversato dalla nostra Amministrazione. Sull’argomento esprimo le mie preoccupazioni con qualche suggerimento. Il problema delle assunzioni non è esistito fino al 1968. Il sistema era assai semplice senza la prescrizione di particolari procedure. L’Ufficio matricola comunicava le vacanze di organico al funzionario competente per ciascun ruolo. Il decreto ministeriale predisposto dal funzionario dava avvio alle varie fasi del procedimento. Era norma costante che i concorsi venissero banditi con scadenza annuale per ricoprire i posti di organico resesi vacanti. Era considerata una questione di ordinaria amministrazione. Con la legge 18 marzo 1968 si volta completamente pagina, prescrivendo che le Amministrazioni possono bandire concorsi previa autorizzazione della Presidenza del Consiglio dei Ministri(Funzione Pubblica), sentito il parere del Consiglio Superiore della Pubblica Amministrazione. Questo, composto per il 51% da sindacalisti, ha frapposto ogni difficoltà a dare parere favorevole per ragioni politiche (i partiti preferiscono le chiamate dirette o in deroga) e, come loro “contropartita”, lasciare grandi vuoti che potessero essere poi riempiti da dipendenti delle qualifiche inferiori. Le vacanze dei ruoli hanno consentito ai sindacati qualche colpo di mano con provvedimenti che hanno immesso personale nelle Amministrazioni in deroga ai concorsi. Così con una legge del 1979 si è dovuto accettare l’immissione di personale proposto dagli uffici di collocamento e quindi senza accertamenti sull’inidoneità. E’ accaduto di tutto anche che soci di cooperative di giovani siano stati immessi in ruoli di alta professionalità (ad esempio di storici dell’arte). L’Amministrazione dell’Interno ha fatto il possibile per sottrarsi a questi giochi infernali. Dal 1977 al 1994 è riuscita a bandire i suoi concorsi e a reclutare circa mille funzionari, senza dei quali si sarebbero chiusi i suoi Uffici nell’Italia settentrionale. Il blocco delle assunzioni, rinnovato anche dal Governo di centro-destra (nonostante il forte invito del Presidente della Repubblica a rinnovare i quadri) sta ora portando l’Amministrazione verso un grave declino. Oggi i giovani funzionari hanno una media di quarantacinque anni. Questo vuol dire che l’Amministrazione sta andando a morire. Ci sono i precari e i riqualificati (tutto il contrario dell’uomo giusto al posto giusto), va morendo la struttura dell’Amministrazione. Siamo entrati in un tunnel buio di cui non si vede
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) l’uscita. Tra dieci anni che resterà? Lo Stato ha rinunciato alla sua funzione, lentamente e senza clamore. E’ difficile immaginare che cosa lo sostituirà. Superfluo dire che una politica non rinunciataria non può che proporre tra i problemi prioritari quello del rinnovo dei quadri a tutti i livelli. Dopo il sequestro e la morte del Presidente Moro fu evidente che il sistema di sicurezza andava rafforzato. Di fronte all’impossibilità tecnica (l’aumento degli organici delle Forze di polizia richiedeva tempo per i bandi di arruolamento, i corsi di formazione, ecc.) si dispose, d’intesa tra il Ministro Rognoni, il Capo della Polizia e lo scrivente Direttore Generale per l’Amministrazione Generale e il Personale, di rafforzare i ruoli civili portandoli da circa settemila unità a trentamila per sostituire soprattutto gli uomini della Polizia affinché si dedicassero ai compiti d’Istituto liberandosi dagli impegni burocratico-amministrativi. Ciò anche in relazione in quanto previsto dalla legge n. 121/1981, per la quale il Prefetto è autorità politico-amministrativa, mentre il Questore è autorità tecnico-operativa. L’Amministrazione generale, con un forte impegno proseguito anche dal direttore generale Di Giovanni, ha potuto con concorsi straordinari reclutare personale amministrativo che negli uffici periferici della P.S. ha sostituito personale tecnico il quale ha svolto una efficace lotta contro il terrorismo, che negli anni 1978-1983 venne sostanzialmente debellato. La politica di restituire all’Amministrazione civile i compiti amministrativi potenziando le componenti tecniche (Polizia e Vigili del Fuoco) è stata via via abbandonata fino ad arrivare agli estremi opposti di utilizzare personale di alta qualificazione tecnica per compiti impropri (gli ispettori di Polizia che dalle indagini sono passati a fare anche gli autisti o i telefonisti) il che oltre a snaturare la funzione propria ha elevato il costo dell’amministrazione pubblica. Avere abbandonato la politica dell’amministrazione generale – come centro politico- amministrativo di tutte le componenti del Ministero dell’Interno – ha fatto perdere a questa grande struttura la sua funzione di centralità e di equilibrio dei vari servizi. Ugualmente nelle strutture periferiche l’Amministrazione dell’Interno si è frantumata in organizzazioni diverse (Prefetture, Questure, DIA, Vigili del Fuoco, Circoscrizioni interregionali di P.S. e altre invenzioni, tipo Commissariato contro la mafia) di cui si è constatata non solo l’inutilità, ma anche il danno che hanno recato al Paese rompendo quell’unità di azione costantemente offerta dai servizi derivanti da una politica unitaria. Grande errore deve anche considerarsi avere abbandonato gli affari territoriali. Il problema era che al controllo andava sostituito il lavoro in comune sui problemi che interessano nella stessa misura le comunità locali e quella nazionale. L’Amministrazione generale ha un grande compito da svolgere a fianco degli enti territoriali in tutti quegli affari che interessano lo sviluppo economico e sociale del Paese. La nascita di più centri che si interessano dei problemi dell’interno ha bloccato lo sviluppo dell’Italia, estraniando, unico tra i grandi Stati occidentali, l’amministrazione centrale dalla conoscenza dei problemi del territorio. Si assiste così a relazioni sullo stato dell’Italia da parte della Banca d’Italia, dell’ISTAT, della Ragioneria Generale, del Censis, mentre il Ministro dell’Interno potrebbe essere l’unico - per i rapporti che ha dai Prefetti, dal Capo della Polizia, dai Carabinieri, dal Sisde, dalla documentazione generale - ad avere tutti gli elementi di conoscenza come accade negli altri Paesi europei. Il Prefetto non può limitarsi a intervenire alle cene del Rotary, ma deve farsi parte attiva nell’intervenire in tutti quei campi ove è necessaria un’azione comune o di mediazione. I migliori Prefetti l’hanno fatto e lo fanno. Occorre invitare i rappresentanti del Governo a una presenza più attiva eliminando sacche di inoperosità, prendendo nota almeno trimestralmente delle iniziative prese e dei risultati ottenuti.
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) Essere presenti nei temi generali che interessano i cittadini è un dovere assoluto che l’amministrazione centrale ha il dovere di fare osservare. Un ritorno di attività nel territorio nell’amministrazione generale è fortemente richiesto dagli interessi dei cittadini. E’ certo che i funzionari dell’Amministrazione civile affronteranno le sfide del futuro se lo Stato non farà mancare la sua spinta propulsiva. Dopo circa un secolo l’amministrazione ha avuto la delega per ristrutturare la carriera prefettizia. E’ stata attuata una prima fase della riforma che ha risolto l’angoscioso problema del trattamento economico, mentre sono rimasti aperti tutti i temi relativi a un assestamento della carriera che è bene sia articolata in più qualifiche rispetto all’attuale che ha addensato i funzionari sostanzialmente in due sole qualifiche. Occorre che vi sia la possibilità di valutare i funzionari prima di conferire ad essi effettive funzioni dirigenziali che, essendo state frantumate in una miriade di aree, non consentono ai funzionari di acquisire quell’esperienza generale indispensabile per essere un buon dirigente. Ritengo utile fare un esempio personale. Sono stato addetto a suo tempo all’Ufficio legislativo. Eravamo solo tre funzionari, ma ciascuno di noi, oltre la proprio quota, per continuo scambio di idee con i colleghi, conosceva tutta l’attività legislativa. Ora i funzionari sono circa trenta all’Ufficio legislativo. Trattando solo una piccola parte del lavoro, i funzionari non possono acquisire l’indispensabile conoscenza generale della situazione legislativa. Lo stesso deve dirsi per l’organigramma del Ministero che fa a pugni con ogni criterio di funzionalità. La preoccupazione maggiore è stata quella di sistemare le persone, non curando l’interesse generale. Il Presidente della nostra associazione ci invita in ogni editoriale a dare il nostro contributo al cambiamento. Da collega anziano invito i più giovani – l’avvenire dell’Amministrazione interessa soprattutto loro – ad esprimere con chiarezza le loro idee, ricordando che l’avvenire di ciascuno è sempre legato alla comunità i cui interessi devono rappresentare le istanze dei singoli. Liberi… di non votare. A proposito del referendum sulla fecondazione assistita
Il fatto che più ci ha sconcertati non è stata la diversità di opinioni sul tema della fecondazione assistita, ma la velenosità e l’accanimento ideologico di certi referendari che, a furia di attaccare le posizioni astensioniste quali forme di prosternazione supina alla gerarchia ecclesiastica e di religiosità bigotta e retrograda, con il loro “dictat” del tipo “andate a votare o non siete persone libere e democratiche” hanno mostrato di essere più “talebani” e bigotti di tanti cattolici. Il colpo di grazia è poi venuto dalle formazioni politiche e da associazioni di tutela del cittadino, nonché da uomini e donne dello spettacolo che si sono quasi “prostituiti” pur di farci votare a modo loro. Vorrei, pertanto, esprimere con chiarezza alcune riflessioni. Non condivido il fatto che su questioni di carattere etico le organizzazioni di tutela civica si pronuncino con la pretesa di orientare la scelta dei cittadini: la gente si aspetta che le nostre organizzazioni civiche si adoperino, innanzitutto, per chiarire le diverse posizioni, esponendo in modo chiaro e sintetico le ragioni degli uni e degli altri. Non escludo che, a conclusione di una equilibrata esposizione delle diverse e opposte argomentazioni, una organizzazione manifesti una posizione votata dai propri organismi statutari, ma tale posizione non può che avere un valore meramente indicativo a livello di dibattito interno, e non certo porsi come la posizione ufficiale del movimento. Riconosco la validità delle deliberazioni
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) degli organi direttivi di una associazione in tema di approvazione del bilancio e di orientamento operativo dell’organizzazione, ma non certo in relazione alle scelte sui valori fondamentali e su questioni di bioetica. Ritengo che la scelta di non andare a votare sia stata giuridicamente legittima ed eticamente corretta, e non apprezzo il tentativo strumentale e capzioso di criminalizzare gli astensionisti. Noi cittadini attivi, semplici e onesti e civicamente impegnati, non accettiamo lezioni di democrazia da parte di chi sfrutta la propria posizione di direzione e di potere all’interno di partiti e organizzazioni civiche per fare politica ideologica e partigiana. Penosa è stata la sfilata di personaggi della politica e dello spettacolo che hanno ostentato il loro volto pensando che il cervello dei cittadini fosse condizionabile con le stesse dinamiche di uno “spot pubblicitario”. La stragrande maggioranza dei cittadini, ritengo che abbia scelto di non votare non certo per pigrizia o perché al mare, ma per libera e consapevole determinazione, non perché lo abbiano suggerito i Vescovi ma per una riflessione laica fondata sulla logica e sul buon senso. Non accetto la “violenza” critica di chi avrebbe voluto farci votare a tutti i costi. I soldi spesi per il referendum avrebbero potuto essere meglio investiti nella ricerca sulle cellule staminali adulte o sull’utilizzo del pre-embrione. Ritengo che la legge attuale possa indirizzare validamente la ricerca lungo percorsi eticamente accettabili, contemperando il rispetto dei diritti della donna con quelli del nascituro. Al di là delle tante argomentazioni addotte, il nocciolo del problema ci pare semplice. Se l’embrione non è una persona umana hanno ragione i referendari; se l’embrione è una persona, seppure in fase evolutiva, deve essere tutelato e tutte le altre ragioni cadono; non è accettabile uccidere una vita umana anche se per salvarne un’altra. Il nocciolo del problema sta quindi nella individuazione del primo momento in cui si può parlare di vita umana e di valore della persona. L’embrione è una unita organica definita: se un giorno la scienza riuscirà a scoprire un nuovo quid di essenziale e costitutivo della persona umana (in passato era protagonista l’anima, ora la fusione dei cromosomi…), le posizioni potranno essere riviste; in questa epoca dell’umanità e nell’attuale fase del progresso scientifico, il ragionamento logico individua nell’embrione il primo momento di definizione completa e programmata della persona umana e pertanto, per un principio di precauzione, è ragionevole far scattare la tutela dal momento della formazione dell’embrione. Per essere più precisi, nei secoli passati il “quid essenziale indice di umanità” era identificato nel momento della discesa dell’anima nel corpo; in seguito, con il recupero del principio di inscindibilità di corpo e spirito e la scoperta dei cromosomi, si è intesa la fusione cromosomica come il momento di avvio del processo di formazione della persona nella sua unitarietà. Se un giorno si scoprisse che l’essenza umana coincide con una fase del processo di crescita, dovremo cambiare opinione, ma ora non ci sono elementi per identificare l’inizio della dignità della persona umana in un momento diverso da quello della fecondazione e della fusione dei cromosomi maschili e femminili. Questa non è una posizione clericalmente bigotta, ma laica e ragionata, cari referendari, la vostra mi pare, invece, la “voce del padrone” che vuole esercitare il suo dominio sulla vita umana: io non ci sto!
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) Al servizio di Sua Maestà il Cittadino
Quando si svolge una qualsiasi attività in maniera consapevole e coinvolgente o, comunque, non automatica e “routinaria”, è implicito porsi una triplice domanda che – attraverso la risposta – possa dare un senso alla propria mission. Tale domanda è: da dove veniamo, ossia quale è il nostro passato; chi siamo e che cosa ci stiamo a fare, ossia quale è il nostro presente; dove vogliamo andare, ossia quale vorremmo che fosse il nostro futuro (sempre con l’umiltà di riconoscere che “l’uomo propone, Dio dispone”). Ce lo chiediamo quotidianamente nella molteplice veste che ogni giorno indossiamo: quella di persone, innanzitutto; quella di mariti e di padri (perdonate la parzialità di veduta ma chi scrive è un maschietto); e, naturalmente, quella di operatori professionali. Più difficili e personali le prime due, più oggettiva e “trattabile” la terza. A dare una risposta a queste domande, spesso, ci vengono in aiuto momenti culturali davvero intensi e formativi, nei quali persone di grande esperienza e maturità ci forniscono un’indicazione basata sulla loro più complessa e completa conoscenza della realtà e ci illuminano nell’incerto procedere del cammino del nostro divenire. Di due di questi momenti voglio qui brevemente riferire, cercando di trasmettervi almeno una percentuale dell’enorme beneficio ottenuto. Il primo si riferisce alla presentazione di un libro sulla figura del Prefetto tenutasi presso la nostra Scuola Superiore lo scorso 15 giugno. E’ stato un incontro davvero pieno di frutti. Erano presenti i vertici della nostra Amministrazione, il Capo di Gabinetto, i Capi dei Dipartimenti e il Direttore della Scuola, i quali hanno disegnato un quadro davvero incoraggiante e, a volte , esaltante della funzione svolta dal Corpo Prefettizio, una realtà, come è stato detto, che con duecento anni di storia alle spalle non ha necessità di chiedersi continuamente la ragione della sua esistenza. Ma come rendere sempre attuale e stimolante la mission istituzionale del Corpo in un periodo di estrema complessità della realtà nella quale siamo quotidianamente chiamati a vivere e operare? Il concetto chiave al quale rapportarci per avere un ausilio illuminante ai fini della comprensione di tale realtà risiede nelle “intersezioni cruciali” - affidate al Prefetto - con la Storia, le Istituzioni, i Cittadini, la Società. Nella Storia il Prefetto incontra il valore della sua identità generalista, di sintesi e di mediazione, la sua lettura della realtà basata sul senso dell’interesse generale e della fedeltà alle istituzioni. Nelle Istituzioni il Prefetto testimonia la sua infungibile presenza sul territorio locale, nazionale e sopranazionale, nella sua opera di collaborazione alla crescita delle autonomie e di raccordo fra tutti i livelli di governo nello spirito della sussidiarietà e della solidarietà. Ma il Prefetto incontra altresì il cittadino, interpreta il suo bisogno di sicurezza, inteso nel duplice significato di safety e di security, propedeutico al raggiungimento del bene, essere materiale e etico, che passa attraverso il godimento di quella libertà uguale e solidale fondata sulla garanzia dell’ottenimento dei livelli essenziali, e non solo minimi, delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. A coronamento della sua missione, il Prefetto incontra la Società nella sua interezza, con la sua tensione innovatrice, con la sua multifunzionalità, con la sua complessità e le sue frequenti domande, cui la sua capacità e intelligenza nel comprendere la realtà è in grado di offrire risposte adeguate e costantemente adeguantisi, in una particolare fusione di fermezza nei valori e duttilità nella afferenza alla poliedricità dell’esistente.
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) Con radici salde e ben ancorate, ali ampie e costantemente pronte a spiccare il volo, da più di duecento anni il Corpo Prefettizio si misura con un esercizio delle antiche virtù della temperanza, della fortezza, della prudenza e della perseveranza, che continuamente rinnova e rimette in discussione per essere sempre al passo con le estreme sollecitazioni della contemporaneità. E’ antico, ma non vecchio. E’ moderno, anche se apparentemente non nuovo. E’, di sicuro, costantemente e quotidianamente attuale. A pochi giorni di distanza, un convegno svoltosi presso la Scuola superiore della Pubblica Amministrazione ha suggellato questi convincimenti appena assorbiti, conferendo loro nuova forza e certezza. Il tema dell’incontro verteva sull’assunto costituzionale di “Pubblica Amministrazione al servizio della Nazione”, reinterpretato attraverso la direttiva del 2004 in materia di customer satisfaction e rivisitato, in chiave prettamente etica, nel nuovo, ma per noi antico e consolidato, concetto della figura del funzionario pubblico - civil servant - da servitore dello Stato a servitore della comunità dei cittadini. Una espressione che il Prefetto Caruso ha mirabilmente e imperituramente sintetizzato nella impegnativa asserzione - per noi quasi un motto della nostra mission - di Corpo Prefettizio orientato “al servizio di Sua Maestà il Cittadino”. E’stato molto bello ascoltare alti dirigenti dello Stato, magistrati amministrativi, giornalisti, nel loro porre il tema etico al centro di una “rivisitazione” della Pubblica Amministrazione; nel loro approfondire la necessità di opzioni culturali e di valori condivisi; nel loro innalzare, forse con un certo ritardo, il momento morale al vertice della definizione del “chi è” del funzionario pubblico. In questi ultimi anni abbiamo voluto troppe volte assimilare la PA alla SPA, in un affinità di acronimo linguistico che, tuttavia, cela lontananze siderali nel target di riferimento. La Pubblica Amministrazione non persegue fini di lucro. Non può essere valutata in termini di costi-benefici. Non può vedersi umiliata dalle dittature contabili dei controlli di gestione. Qui parliamo di servizi al cittadino che hanno quale unico parametro il suo bene-essere. Per fare un esempio, un medico deve poter dimettere un paziente da un ospedale solo quando scientificamente e moralmente ritiene che possa essere guarito, non quando il direttore sanitario glielo impone perché ha superato lo standard timing scelto per far quadrare i conti. Mentre stavo completando questo scritto, mi è giunto l’ultimo numero della rivista “Amministrazione Civile”, all’interno della quale ho trovato un eccellente contributo del Prefetto Maninchedda sul valore dell’etica per tutti i dipendenti pubblici e con il quale vorrei concludere questa mia chiacchierata. “Coloro che sono chiamati a svolgere funzioni in vario modo dirette al perseguimento degli interessi della collettività - scrive il prefetto Maninchedda – sono responsabili non solo dell’esatta applicazione delle regole, giuridiche e tecniche, vigenti nei diversi settori nei quali operano, ma devono essere anche portatori di doveri etici complementari rispetto agli obblighi settoriali della loro funzione: doveri etici posti anch’essi a garanzia degli interessi pubblici perseguiti. (…) Le discipline che regolano le singole attività svolte e che prevedono precisi obblighi e responsabilità nei diversi campi non esauriscono il sistema generale dei doveri che deve governare l’attività delle categorie pubbliche. Quelle discipline vengono integrate dai distinti sistemi di deontologia professionale fondati sui valori etici immanenti alle funzioni di interesse pubblico esercitate, valori che, in sintesi, fanno riferimento, più o meno direttamente, all’uomo, al suo rispetto, alla sua dignità.“ Forse, dopo l’e-government è tornato il momento di riaffermare l’”ethical governance”: se ogni giorno , ognuno di noi compie anche una sola azione che sia di effettivo servizio e utilità per
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) “Sua maestà il Cittadino”, non avrà alcun bisogno di interrogarsi né sul suo passato, né sul suo presente e, neppure, in merito al suo futuro. Dal suo corretto e proficuo agire avrà già avuto la risposta ad ogni sua domanda. Il libro: “La tragedia di Pentidattilo” di Andrea Cantadori*
Capita spesso, dopo una vacanza, di rimanere attratti dai luoghi visitati. Raramente capita, invece, tornati da un viaggio, di scrivere un libro sulle storie narrate dagli abitanti del posto e, in genere, sulle sensazioni che quelle zone ci hanno trasmesso. Questo è quanto ha fattoAndrea Cantadori al rientro dalla Calabria. Leggendo il libro è possibile cogliere, fin dalle prime pagine, il grande fascino che quella terra ha avuto su di lui. E' anche per tale motivo che, da meridionale profondamente legata alle mie radici, ho voluto scrivere un breve commento al romanzo. Ciò che infatti mi ha più colpito sono il linguaggio ed i sentimenti che è riuscito a far esprimere ai personaggi ritratti, inseriti in un contesto che, in parte, continua ancor oggi a sopravvivere; il suo sforzo di avvicinarsi quanto più possibile a quella mentalità, mescolando il passato al presente e tutto ciò nonostante l’autore sia nato e vissuto in luoghi lontani da quella realtà. Ne sono esempi l’autocritica che fa dei calabresi il marchese Alberti allorquando viene invitato da Don Pedro a cessare le ostilità con il barone Abenavoli, l’idea che quest’ultimo ha del “vero”uomo o la “filosofia del potere” dei briganti. I protagonisti sono soprattutto uomini forti, volitivi e passionali, pronti a tutto pur di realizzare i loro desideri, accecati dall’odio e dalla vendetta mentre il mondo femminile è caratterizzato, in genere, da accondiscendenza. Qui non c’è posto per la razionalità e se c’è è soffocata dagli eventi che si devono compiere a ogni costo e il senso dell’onore pervade tutta la storia che narra la vicenda, realmente accaduta a Pentidattilo, ora frazione del comune di Melito Porto Salvo, di due nobili famiglie, gli Alberti e gli Abenavoli, culminata in tragedia la notte di Pasqua dell’anno 1686 a causa di un amore negato e impossibile. Le cronache dell’epoca parlano di un gran numero di innocenti ammazzati e il luogo, un castello oggi rudere incastonato ai piedi di una montagna che ha la forma di cinque dita (da qui il nome del paese, Pentidattilo), continua a richiamare alla mente del visitatore il grave fatto di sangue, come se la vicenda fosse per sempre rimasta impressa su quelle mura. Ma la trama, coinvolgente, è per Andrea solo l’occasione per mettere a nudo l’interiorità dell’uomo, i suoi pensieri, le sue sensazioni. E’ il mondo interiore quello che emerge e che affascina il lettore e la descrizione dei fatti e, con essi, del passato o del presente, dei modi di vivere di quei luoghi, è solo coreografia. Ed è soprattutto la prorompente energia di Bernardino Abenavoli, il barone cui è stato negato il sogno di vivere con la sua amata Antonietta, che stupisce dando l’impressione di lasciare poco spazio alle altre figure, quasi le soffocasse. E’ a lui che sono ascrivibili i sentimenti più forti, è lui che prende ogni decisione, è lui che si augura di poter vivere il resto della sua esistenza nel ricordo di quell’unica giornata vissuta assieme ad Antonietta, convinto di aver fatto la cosa più giusta in quanto “la felicità esiste solo in quantità limitata”, è lui che muore quasi da eroe nonostante la mattanza, è lui il protagonista assoluto della
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) tragedia che si è compiuta; un tragico eroe greco, spinto verso un destino che niente e nessuno potrà mutare. *Falzea Editore, pagg. 124. Richiedibile , sezione Narrativa Immigrato kaputt
Allora, è meglio che non leggiate quello che sto per dirVi. Avete mai provato a fare una-due volte il “giro-della-morte”, in quelle ruote gigantesche del Disneyland parigino? No? Be’, allora vedete se Vi piacerà questo brivido “dialettico” che state per leggere. Sì, perché qui il mio bersaglio preferito sarà la Nostra coscienza, ovattata nella culla di chi nasce con la camicia. Già: ma che cosa provano quelli che nascono su un barchino corroso dalla ruggine, pilotato da pirati dementi, in cui vengono trasportate clandestinamente le loro sfortunatissime madri, per essere abbandonate al largo, distanti da coste e da posti che non hanno mai visto, se non nelle Nostre pubblicità patinate e nei reality-show, che sono l’esatto contrario della vita che li attende, qui da Noi? Perché rischiano così tanto? Probabilmente, nei loro occhi c’è solo un sogno che tutti, ma proprio tutti capiamo benissimo: dare un futuro decente ai loro figli. Fine del pistolotto. Veniamo a Noi (pronti con l’Imodium?). Ricordate il crollo dell’Impero Romano? E le cronache terribili che accompagnarono le invasioni barbariche? La Storia mi sembra abbia una certa “coazione a ripetere”. Solo che si diverte a cambiare, di volta in volta, quegli ingredienti iniziali. Ora come allora, qui in Occidente ci ritroviamo con società “grasse” e decadenti, che hanno perso la speranza del futuro, in quanto non fanno più figli. Quindi, per farci mantenere da qualcuno, siamo sempre più costretti a importare "giovani", da dove ce ne sono in abbondanza, per cercare di tenere in vita società sempre più vecchie ed intrise di inguaribile egoismo. Non essendo in grado (esattamente come accadde all’epoca delle orde barbariche) di fare una selezione preventiva di coloro che intendiamo metterci in casa nostra, prevale il concetto bruto della forza: giungono da Noi quelli che sono disposti a tutto, anche a delinquere (quindi: continuano ad arrivare i più giovani, aggressivi, spregiudicati, non qualificati che, per pagarsi il viaggio sulle carrette del mare, hanno letteralmente fatto follie e/o sacrifici inenarrabili a casa loro!), pur di ottenere per sé una fetta di quel benessere che Noi abbiamo in abbondanza. Come duemila anni fa, molti (non tutti e, soprattutto, non certamente quelli delle prime ondate immigratorie –filippini, in particolare- che sono venuti a darci una mano, badando ai nostri vecchi e bambini!) di questi nuovi barbari provengono da ambienti culturali antitetici, rispetto al nostro modello occidentale. È ben noto, infatti, che per i musulmani Stato e Chiesa sono la stessa cosa e, in fondo, nel Corano (come in molte altre realtà tribali) le donne sono poco più di "cose", sempre e comunque a disposizione del maschio padrone. Attenzione, quindi: gli strupri di cui parlano attualmente giornali e televisione, non sono altro che quel riflesso, ovvero l'energia repressa di gruppi etnico-linguistici che si ribellano alla civiltà del Paese ospitante e vogliono conquistarlo, innanzitutto, cercando di diffondere con la violenza il proprio seme, trasmettendo ad ogni costo il loro patrimonio genetico, ingravidando le donne del "nemico" (quante altre volte nella Storia è successo? Ricordate, appena ieri, la Bosnia?). Molti dei nuovi immigrati e i loro clan organizzati (soprattutto, slavi, albanesi e magrebini), responsabili di efferati delitti, provengono da un ambiente sociale assolutamente diverso dal modello occidentale che conosciamo, in cui i diritti umani (e,
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) soprattutto, il rispetto per la donna) sono ancora in fase primordiale, ovvero sottoposti alla legge religiosa della sharjia. Io, ovviamente, non mi scandalizzo se qualcuno di questi nostri ospiti indesiderati va ad arare in modo animalesco le strade e i parchi di questo basìto Paese, per sentirsi "superiore", violentando le donne dell’ospitante, in quanto bersagli facili ed indifesi. Da quando siamo venuti in questa Terra, siamo fatti così e, proprio per questo, ce l'abbiamo fatta, finora a restare la specie dominante (però, c'è sempre una Nagasaki moltiplicata per cento, che incombe da qualche parte!). Non è, tuttavia, facile addomesticare l'animale che sopravvive in Noi, anche perché se lo facessimo veramente ci ritroveremmo tutti quanti nell'Eden o sull'Isola Felice che non c'è. In realtà, il vero problema, quello di cui nessuno parla (e che, eppure è qui, tra di Noi, concreto come la pietra angolare di un monumento ai caduti), è rappresentato dalla Nostra inarrestabile decadenza. Di chi la colpa, se il tasso di natalità è sceso "sotto zero" (muoiono più italiani, in un anno, di quanti ne nascano!)? Per sopravvivere, dobbiamo obbligatoriamente "rinsanguarci" con i geni di chi di figli ne fa assolutamente troppi e non riesce a garantire loro nessun futuro decente, nel Paese d'origine. Parallelamente a quanto accadde per la Roma della decadenza, quelle frontiere, che non sappiamo più difendere per colpa della Nostra demagogia, sono oggi invase dai "Nuovi Barbari”. Cosicché, tra breve, saremmo costretti (come popolo "vecchio") ad arruolare in massa ex immigrati regolarizzati, per la sorveglianza e i compiti di polizia di prevenzione e repressione di reati commessi dai loro connazionali clandestini! Se una soluzione deve esserci a questo disastro antropologico, non può che essere individuata a livello "globale". Ribadisco: per i nuovi arrivati, siamo territorio di conquista. Lo sono le Nostre donne, la Nostra ricchezza, che non abbiamo saputo condividere, non avendo ancora creato, per l'appunto, un progetto globale di riscatto di un'umanità "a perdere", che oggi ci aggredisce e ci ossessiona. Diviene, così, perfettamente naturale il riflesso difensivo, da parte Nostra. Mi interesserebbe sapere se, in merito, c’è qualche solone che mi dia un’idea, mi suggerisca un’alternativa a quella attuale (prevista dalla Bossi-Fini ma “anche” dalla Turco-Napolitano!) che fa riferimento al sistema di filtraggio e di clearing dei vari Cpt, CdA, Cid, per separare l’immigrazione “cattiva” da quella “buona” degli aventi diritto al riconoscimento dell’asilo. Tutti criticano la soluzione italiana, dipingendo i Cpt come luoghi di “detenzione” e di privazione dei diritti dei migranti, senza formulare valide soluzioni operative alternative, su come affrontare il fenomeno dei “rifugiati economici” (superiori al 90% di quelli che arrivano clandestinamente, ogni anno, in Italia), alla ricerca di un’occasione migliore di vita, pur non avendo nulla a che fare con persecuzioni di carattere etnico, politico o religioso. Leggendo attentamente nelle polemiche di questi giorni, sembra di capire che, in pratica, Achnur, Amnesty, Medecins sans frontières, etc., appellandosi al principio di non respingimento, vogliano veder attribuiti a tutti gli applicanti per l’asilo una sorta di “salvacondotto” temporaneo, che li abiliti comunque alla permanenza sul nostro territorio, senza alcun limite per la loro capacità di movimento. Bene: visto che, in realtà, l’immigrazione illegale è tutt’altro che “buona” (ogni anno, le commissioni competenti accolgono meno del 9% delle domande d’asilo presentate), come si farà a notificare il più che probabile diniego alla richiesta d’asilo e ad eseguire il provvedimento conseguente di espulsione, nei confronti di chi si sarà reso nel frattempo irreperibile, entrando in clandestinità? E ancora: che cosa si intende, con la richiesta di istituire organismi di monitoraggio ed ispezione, che possano entrare senza preavviso nei luoghi di trattenimento (Cpt, CdA, Cid)? Si pensi soltanto a come questa facoltà possa essere sfruttata dall’immigrazione “cattiva” per organizzare drammatici show-down, a uso e consumo di tutte le possibili strumentalizzazioni politiche, facendo così del diritto d’accesso incondizionato un’arma formidabile di ricatto, in mano ai gruppi più violenti di immigrati irregolari. Sarebbe cosa ben diversa, invece, se il Consiglio
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II-quattordicesima raccolta(12 luglio 2005) d’Europa individuasse linee di azione comuni, per il clearing degli immigrati illegali, istituendo e regolamentando i relativi organismi di controllo ultranazionali. O, in sostituzione, vogliamo introdurre, in via sperimentale, i “bracciali elettronici”, per impedire che i falsi asilanti diventino uccel di bosco? Attendo proposte, se possibile!
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